mercoledì 30 luglio 2025

BLANCHIMONT

«Dai, muoviti. Siamo fermi da mezz’ora, se venivamo con la mia macchina, a quest’ora eravamo già al circuito.»

Luca spinse il borsone nel bagagliaio della Golf con una certa violenza. I jeans bagnati, la felpa zuppa sulle spalle, in mano una Red Bull tiepida. L’autogrill belga odorava di carburante e pane raffermo, e l’umidità gli appiccicava i pensieri addosso come uno strato di vinile.

Mattia rientrò con due panini sottovuoto e due caffè lunghi, il vapore che si arrendeva all’aria grigia.

«Tranquillo. Siamo a meno di un’ora. Le FP1 non le perdiamo.»

«Sì, ma se non guidavi come tuo padre, che viaggia come un funzionario dell’INPS, eravamo già là. A volte mi sembra che tu abbia paura di avere fretta.»

Mattia si sedette al volante. Non si giustificò,  accese il motore, lasciandolo girare piano e poi, fissando la pioggia sottile che batteva sul parabrezza, disse:

«Sai perché mio padre preferisce Blanchimont a Eau Rouge?»

Luca lo guardò con fastidio.

«Perché è uno di quei boomer che vogliono sentirsi originali? Dai, tutti sanno che Eau Rouge è la curva più iconica.»

«Appunto. Eau Rouge è un salto. Uno schiaffo in faccia: ti lanci, stacchi e speri che la macchina tenga. È giovinezza pura; Blanchimont invece… lui dice che è la più pericolosa perché ti frega quando pensi che non succederà più niente.»

Luca fece una smorfia. «Mi sa che tuo padre ha bisogno di uno psicologo.»

Mattia sorrise appena. Poi continuò:

«Dice che nella prima metà della vita siamo ossessionati dalla fine delle cose. Prima finire la scuola, poi raggiungere la laurea, terminare il servizio militare, superare il tirocinio, andare oltre la gavetta. È tutto un voler passare oltre, con il tempo sembra non finire mai, che passa lento. Troppo lento e la felicità è sempre dopo.»

Luca, con la fronte appoggiata al vetro, replicò con aria annoiata: "Nessuno oggi fa più il militare".

Mattia riprese subito il discorso. 

«Poi, insiste sempre, inizi a perdere. Non tutto in una volta: le cose cominciano a sfuggire poco a poco, senza che tu te ne accorga. I figli crescono, il lavoro cambia sotto i piedi. Arrivano i più giovani, più veloci, con meno passato da portarsi dietro e che non fanno fatica ad adattarsi al cambiamento digitale perchè semplicemnte ci sono dentro. Il corpo poi non ti segue più come prima. E il tempo… il tempo corre. Troppo veloce. E tu vuoi solo trattenere ciò che hai.»

Luca scrollò le spalle.

«Ma che c’entra con noi? Noi siamo prima. Non c’è niente da trattenere. C’è solo da correre.»

«Lo so. E non ti sto dicendo di rallentare. Lui mi ha detto solo questo: che a un certo punto capisci che la felicità non è arrivare, ma essere dentro: dentro alla curva, proprio quando la stai facendo. E che è un attimo, ma se lo perdi, non torna.»

Il resto del viaggio scivolò via quasi in silenzio. I due ragazzi entrarono a Spa-Francorchamps mentre il cielo apriva sprazzi pallidi tra le nuvole. Avevano trovato posto in zona Blanchimont, tra pochi intimi che avevano scelto proprio lì, dove la pista taglia l’illusione della velocità facile.

Il rombo di una Red Bull in simulazione gara ruppe l’aria. La vettura passò incollata all’asfalto, perfetta. Dietro, una Ferrari — livrea opaca, baricentro basso, rumore pieno — forzò un po’ di più. Il pilota cercava il limite.

Poi, improvviso, il posteriore cedette. Forse una traiettoria troppo interna, forse l’asfalto ancora umido: la vettura scivolò, ruotò su sé stessa. Testacoda. Ghiaia. Bandiera gialla.

Luca si alzò in piedi di scatto. «Cazzo. Era dentro. Tutto sotto controllo. Poi fuori. Così. Ma come cazzo si può??»

Mattia non disse nulla. Lo guardava senza fissarlo.

«Blanchimont, eh?» disse Luca, ancora in piedi.

«Già.»

«Ok. Ok. Però domani guido io. E niente soste.»

Mattia annuì. Senza discutere.

Luca si sedette di nuovo. Addentò il panino, poi mormorò, quasi tra sé:

«Comunque… è una gran curva.»

«Sì. La più vera che c’è.»

Rimasero lì. Uno, a osservare. L’altro, a sentire il motore ancora tutto da spremere.

mercoledì 23 luglio 2025

DUE E QUARANTADUE DEL MATTINO

“Tra sogno e realtà” era il titolo scelto per la mostra sull'arte figurativa con cui Rubén aveva esordito molti anni prima e che tra qualche giorno sarebbe stata inaugurata in Brasile, a San Paolo. Lo scopo dell'evento era condurre il visitatore ad una riflessione sull'arte del periodo giovanile dell'artista iberico, su quei momenti sospesi fra ciò che immaginiamo e ciò che esiste davvero. Pittore spagnolo nato e cresciuto a Toledo, viveva nella sua mansarda-studio che chiamava “tana creativa”, dove tele mezze finite, pennelli sporchi e barattoli di colore costellavano ogni superficie.

La sveglia sarebbe dovuta suonare alle 5:30, in modo da prendere il primo volo per San Paolo, ma Rubén aprì gli occhi alle 2:42, senza rumore, senza un perché. La lampada nel suo spazio di lavoro sparpagliava chiaroscuri sul cavalletto, illuminando una tela incompiuta. Il cuore gli batteva piano, ma con insistenza.

Si alzò, accese la lampada sul comodino e prese il libro che stava leggendo pigramente da mesi senza riuscire mai procedere spedito: Notti bianche di Dostoevskij. Cercava di ancorarsi a qualcosa, forse alla parola scritta, forse a una spiegazione. Dopo poche pagine, la vista gli si fece pesante, il corpo abbandonato sulla poltrona accanto al letto. Non si accorse del momento esatto in cui la coscienza cedette.

Il sogno era ambientato al mattino dopo il risveglio, un’aria tiepida e stranamente fragrante invadeva il piccolo giardino dietro casa. Rubén scese i pochi gradini che lo separavano dal cortile, e lì, in piedi accanto al fico, c’era suo fratello Joaquín. Indossava l’uniforme verde della Guardia Civil. Rubén rimase immobile, sorpreso:
«Ma… Joaquín… che ci fai vestito così? Tu sei stato in Marina, ricordi? Ufficiale di coperta!»

Il fratello lo guardò, sorrise, ma non rispose. Si limitò a posargli una mano sulla spalla, un gesto calmo, profondo e poi si voltò, allontanandosi lentamente tra le piante, dissolvendosi come nebbia al sole.

Rubén rientrò in casa, col cuore che ora batteva più forte. Sentì rumore di stoviglie in cucina. In fondo al corridoio, vicino alla credenza, una figura minuta, familiare: una donna anziana, con lo scialle di lana blu che usava per cucinare.
La luce era calda, quasi liquida.
«Mamá…?»
Lei si voltò. Era lei. Il viso segnato dal tempo, ma vivo, vivo davvero. Lo guardò e sorrise, con quella tenerezza assoluta che solo le madri conoscono.
«Rubén, hijo… sei dimagrito; hai fatto un lavoro splendido con la casa… guarda quel tavolo, lo avevi promesso che l’avresti sistemato.»

Lui si avvicinò tremando, e lei gli aprì le braccia. L’abbraccio fu totale, carnale, definitivo. Sentì l’odore della sua pelle, la lana grezza del maglione contro la guancia, le mani ossute che gli accarezzavano i capelli come da bambino.
E pianse. Senza vergogna, senza misura.

Lei lo strinse a lungo. Poi si voltò, entrò in cucina e iniziò a preparare qualcosa con i gesti che erano quelli di sempre: l’olio d’oliva, il rumore dell’acqua, il coltello sul tagliere.
Rubén la guardava, stordito, sospeso in quella perfezione dolce e impossibile; non riusciva a capire: era sogno o realtà?

Un trillo acuto lo strappò invece al sogno.

Gli occhi bruciavano, la gola era secca. Si massaggiò le guance, ancora umide: forse aveva pianto davvero. La lampada era accesa, il libro aperto sul tavolino, i pennelli immobili accanto a una tela bagnata.

Sapeva che non poteva più perdere tempo. Si alzò, fece una doccia veloce, sistemò le ultime cose in valigia. Raccattò il portatile con appunti e immagini, chiuse la “tana creativa” e chiamò un taxi.

Durante tutto il volo verso il Brasile, verso San Paolo, tra il brusio dei motori e la plasticosa colazione sul vassoio, Rubén rimase indietro nel tempo, non riusciva a pensare ad altro se non all’abbraccio con la madre, alla divisa insolita del fratello, alla dolcezza e all'incredibile percezione di sensazoni corporee che avevano pervaso quel vivido sogno notturno; ma anche quel senso d'incredulità, di stupore, il tutto condito dall'inquietudine di lui che voleva uscire dalla casa, mentre le immagini e i volti lo trattenevamo all'interno.

Tentò di darne un’interpretazione, come se quel sogno fosse un quadro da decifrare: il giardino forse rappresentava il luogo originario, l’infanzia, la radice emotiva di ogni sua immagine. Joaquín in divisa — non quella da marinaio, ma da Guardia Civil — poteva essere la parte di lui che aveva scelto la disciplina, il dovere, un’armatura contro la fragilità. O forse era una colpa antica, un rancore familiare mai davvero elaborato, oppure la sgradevole situazione di sentirsi innocente ma comunque sotto inchiesta? O ancora un desiderio di protezione? 

E sua madre… era il cuore del sogno. Non un ricordo, non un’assenza, ma un archetipo: la Madre con la M maiuscola, simbolo del grembo originario, della protezione, della totalità; in quell’abbraccio c’era qualcosa che andava oltre la biografia, oltre la memoria: un ritorno all’essenziale, all’unità primordiale da cui ogni vita — e forse anche ogni opera — prende forma.

Rubén pensò a Jung, alla sua idea che i sogni non siano scarti o fantasmi del passato come invece pretendeva Freud, ma messaggi del Sé, immagini che guidano l’anima nel suo cammino verso l’interezza. Forse quel sogno non chiedeva di essere capito, ma di essere ascoltato, di essere custodito, come si custodisce un regalo oppure una tela che ancora non si è pronti a dipingere.

E allora sì, “Tra sogno e realtà” non era solo il titolo della sua mostra: era una soglia, un luogo di passaggio dove l’inconscio si fa immagine, e l’immagine, a volte, diventa verità.

Forse era una sorta di sottile linea su cui giocava ogni suo dipinto, ogni colore, ogni sfumatura della memoria.

E chissà, forse anche la vita stessa.

Ma Rubén non era né uno psicanalista né un filosofo: era un pittore e in fondo, lo sapeva: tutto ciò che non riusciva a spiegare, lo aveva sempre provato a dipingere.


mercoledì 16 luglio 2025

NONNO CONTRO ALGORITMO: LA MEMORIA NON FA LIKE

Il nonno sedeva sulla vecchia sedia in ferro battuto sotto il fico, con la schiena un po’ curva ma lo sguardo ancora vivo. Ogni estate, quando il sole cominciava a battere più forte sulle tegole della casa, si spostava nel punto d’ombra dove i rami tagliavano la luce in strisce oblique. Indossava sempre la camicia bianca, maniche arrotolate, e leggeva il giornale come se stesse decifrando un codice antico. Era stato professore di greco e latino al liceo di Gorizia per più di trent’anni. Andrea sapeva che aveva vissuto il dopoguerra da ragazzo, proprio lì, in quella terra di confine che non somigliava a nessun'altra.

«Hai visto cosa succede in Ucraina?» chiese Andrea, scrollando lo smartphone con un gesto rapido, quasi irritato. «E la guerra a Gaza… un’altra escalation.»

Il nonno sollevò appena lo sguardo, non stupito. Posò il giornale e, per un momento, fissò le foglie sopra di loro.
«La prima vittima di ogni guerra è la verità», disse con tono calmo.

Andrea sbuffò. «Ma dai, non cominciamo con le frasi fatte.»

«È fatta perché è vera», replicò il nonno, senza perdere la pazienza. «Quando si spengono le armi, quando ancora nell’aria si sente l’odore della morte, allora comincia un altro tipo di battaglia: quella sulle narrazioni.»

Andrea lo fissò per un attimo. «Ma almeno oggi abbiamo fonti, video, tracciabilità. Possiamo risalire ai fatti. Una volta magari si poteva mistificare tutto, ma oggi…»

Il nonno fece un gesto lento con la mano, come a zittire l’ingenuità.
«La tecnologia non cambia la natura umana, la amplifica. Le menzogne oggi si diffondono con una luce ancora più accecante: subito s’illuminano quelle dei vinti, mentre ombre lunghe coprono quelle dei vincitori che poi diventano la storia. Almeno fino al prossimo giro di valzer.»

Andrea alzò le spalle. «Ho capito. Sei uno di quelli che cerca la memoria condivisa, no? Quelli del “dobbiamo capirci tutti, metterci d’accordo sulla verità…”»

Il nonno si fece più serio. «No. La memoria condivisa è una sciocchezza. È un’invenzione comoda, un compromesso che appiattisce le differenze. Io la guerra l’ho vista dal basso, quando qui la Venezia Giulia era terra contesa. Italiani, sloveni, croati, partigiani, fascisti in fuga, tedeschi, titini. Era un tempo in cui la paura e l’odio erano sparsi come polvere nell’aria: i partigiani titini portavano via uomini, sparivano famiglie, ma anche i soldati italiani avevano commesso azioni tremende di cui non si parlava mai ad alta voce. E noi bambini imparavamo a stare zitti, a non fare domande. Finita la guerra, qui nella Venezia Giulia, tutti parlavano sottovoce. Gli italiani avevano paura degli slavi, gli slavi degli italiani, i fascisti dei comunisti, i comunisti dei titini, e noi bambini… avevano paura di tutti. Mio padre tornò a casa con la divisa strappata e una faccia che non aveva più voglia di parlare. Ma non diceva la verità. Diceva la sua verità. Non c’era nulla di chiaro, i confini si spostavano come le parole: una strada era italiana al mattino, jugoslava alla sera. Mia madre nascondeva le croste di pane in una federa, per darmele quando tornavo dalla scuola con la giacca piena di sputi perché mio padre aveva combattuto ‘dalla parte sbagliata’. Ma cos’è la parte giusta, Andrea, se nessuno può piangere i suoi morti senza sentirsi accusato? La verità era che nessuno era del tutto innocente e nessuno era colpevole da solo."

Il nipote si fece serio.
«Ma non possiamo relativizzare tutto. Altrimenti nessuno è più responsabile di nulla, si finisce di mettere aggressori e aggrediti sullo stesso piano!»

Il nonno annuì lentamente.
«Vedi, la matematica ti consola perché ha errori assoluti. Due più due non fa mai cinque. Ma nell’uomo, nelle sue scelte, non c’è nulla di così netto, anche ciò che ci appare più sgradevole, più ripugnante, può contenere un minuscolo granello di Verità e se non siamo disposti a cercarlo, allora diventiamo ciechi. Se non vogliamo vedere la verità degli altri, saremo sempre i primi a raccontarci bugie.»

Il nonno si alzò lentamente, appoggiandosi al bastone, e indicò il muretto oltre il quale si apriva la campagna friulana. «Vedi là? Quella casa con le tegole rosse era della famiglia di Lorenzo. Mio compagno di scuola. Aveva dodici anni, come me, quando nel '45, poco dopo la fine della guerra, suo padre fu portato via dai partigiani titini. Sparito. Nessuna tomba, nessuna parola. Per anni ho creduto che fossero solo criminali.»

Fece una pausa, poi si sedette di nuovo. «Poi, da professore, ho letto, studiato, parlato con chi stava dall’altra parte del confine. E sai cosa ho scoperto? Che Lorenzo aveva perso un padre, sì. Ma anche Mateja, la figlia del falegname sloveno, aveva perso il fratello, ammazzato da un plotone italiano nel ’42, senza processo. Eppure nessuno me lo aveva mai detto.»

Andrea abbassò lo sguardo. «E allora? Non c’è via d’uscita?»

«La via d’uscita non è la memoria condivisa. È il rispetto. La pace vera arriva quando ogni parte riconosce le sofferenze dell’altro, quando si ha il coraggio di dire: tu eri mio nemico, ma la tua identità ha valore, la tua ferita è reale; solo allora si comincia a guarire mentre fino a quel momento, si resta prigionieri della propria versione della luce.»

Il fico sopra di loro oscillava leggermente, mosso da un vento caldo che portava con sé l’odore secco dell’erba e del ferro vecchio.

Andrea rimase in silenzio, poi spense il telefono e si alzò.
Andò in cucina, preparò due caffè e tornò con le tazzine. Le posò sul tavolo di ferro, accanto al giornale. Il nonno annuì, quasi sorpreso.

«Grazie.»

«Di niente», disse Andrea. «Forse il dubbio e la memoria sono algoritmi più potenti di quanto pensassi.»

Il nonno sorrise e replicò: „Ma stai attento, non ti farà aumentare mai i like sul tuo profilo“.

mercoledì 9 luglio 2025

SILENZIO UZBEKO, PAROLE FRANCESI


Il sole stava scivolando lento dietro le cupole turchesi del Registan, quando Émile, con il passo rilassato del viaggiatore solitario, si fermò di colpo. A pochi metri da lui, davanti a un venditore di sete, un uomo con una camicia a righe e il cappello di paglia stava negoziando con un’energia familiare.

«Jules?»
L’uomo si voltò di scatto, sgranando gli occhi. «Émile? Ma… Émile Lafont?»

Si abbracciarono senza vergogna, come due ragazzi che si ritrovano a un incrocio improbabile del mondo. Jules era in viaggio con sua moglie Claire e i loro due figli già grandi, turisti entusiasti in un luogo che pareva disegnato dalla fantasia. Émile era da solo, come sempre nei suoi viaggi fuori stagione.

«Non ci posso credere… a Samarcanda!» rise Jules.
«Un caso meraviglioso,» rispose Émile. «Io ho lasciato Parigi per qualche settimana. Volevo silenzio, polvere e cielo.»

Dopo qualche battuta e le presentazioni dei familiari, si salutarono con una promessa seria: vedersi quella sera, solo loro due. Come ai vecchi tempi, ma con la barba grigia e qualche ruga in più.

Quella sera si ritrovarono su una terrazza che dava sulle cupole della città vecchia. Il cielo era una tavolozza che andava dall’ambra al blu profondo. Ordinarono due bicchieri di kumis, il latte fermentato dei nomadi, e si accesero un sigaro uzbeko che profumava di tabacco e polvere.

«Allora,» iniziò Jules, «la grande Parigi ti ha adottato per sempre?»

Émile sorrise, senza compiacimento. «Direi che ci siamo reciprocamente tollerati. Ho studiato diritto alla Sorbona, ho fatto pratica in un piccolo studio, poi ho lavorato vent’anni con la municipalità. Adesso seguo progetti di diritto urbano, politiche abitative, integrazione… non è banale, ma è stato totalizzante. Per molto tempo è stato tutto.»

«Mai una compagna?»
Émile scrollò le spalle con naturalezza. «Ci sono state persone. Belle, anche importanti e il mio tempo era sempre preso e io non ho mai voluto veramente cedere il passo. Forse è stata una scelta, forse una fuga, ma non ho rimpianti. Solo… oggi il ritmo è un altro.»

Fece una pausa, guardando il fumo salire lento. Poi riprese, con voce più morbida:
«Sai, non ho mai avuto paura della solitudine ma ultimamente mi chiedo se, ora che ho sollevato un po’ il piede dall’acceleratore, ci sia ancora spazio per qualcosa di nuovo. Qualcuno con cui condividere questo tempo che si dilata. Non un rattoppo all’ultimo minuto, ma una vera compagnia. Ho vissuto pienamente il mio lavoro, ma oggi sento che potrei vivere pienamente anche altro. E mi auguro, sinceramente, di essere ancora in tempo.»

Jules sorrise, genuinamente. «Lo sei, amico mio e forse ora sei anche più pronto, perché non hai più bisogno di dimostrare tutto a tutti.»

«Forse è così, non cerco più né fuochi d’artificio, né salvataggi: solo una mano capace di camminare vicino alla mia, al passo giusto.»

«E quando succederà,» disse Jules con una risata, «la torta di nozze la faccio io. Ma niente fronzoli, solo burro vero e lamponi freschi.»

Risero entrambi, come due ragazzi in cortile, prima che la vita li portasse in direzioni opposte.

«E tu?» chiese Émile dopo un altro sorso di kumis. «Hai la luce di uno che ha trovato casa.»

«Sì. E l’ho trovata nella farina e nel lievito,» rispose Jules con orgoglio. «Ho lasciato la scuola presto, ricordi? Il liceo non faceva per me. Ho iniziato come garzone in quella piccola pasticceria sulla Promenade. Poi l’ho rilevata, ho sposato Claire — era cameriera lì — e non ho più smesso. Ogni giorno, da allora, è stato pieno. Non sempre facile, ma sempre giusto.»

«Mai avuto voglia di fare altro?»
«Mai. Perché ho fatto ciò che sentivo mio. Le mani sporche di burro, le alzatacce, i clienti che tornano per un pain au chocolat… È una forma di felicità, la mia. E non cambierei nulla.»

Restarono in silenzio, guardando la città spegnersi piano.

«Lo sai, Jules,» disse Émile, «ho visto troppi ragazzi brillanti finire in posti che non gli appartenevano. E altri ancora — silenziosi, profondi — ignorati perché non brillavano nel modo giusto. È una perdita enorme. Non solo per loro. Per tutti.»

Jules annuì. «Quando una persona non riesce a usare i propri talenti, il danno è della comunità. Della collettività. Perdiamo possibilità, energia, bellezza.»

«La scuola dovrebbe avere il coraggio di guardare davvero. Non solo di insegnare. Ma di ascoltare, intuire, accompagnare.»

«Io ho avuto fortuna,» disse Jules. «Non mi hanno ostacolato, questo è bastato. Ma oggi i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che li guardi per davvero.»

Le stelle cominciavano a spuntare sopra Samarcanda.

«Ti rendi conto?» sussurrò Jules. «Due nizzardi che parlano di scuola e destino in Uzbekistan.»

Émile rise. «Forse è solo qui che si può davvero fermare il tempo. E capire che cosa ci ha fatto diventare quelli che siamo.»

«O forse,» aggiunse Jules, «è solo la magia dell’amicizia. Quella vera. Che non ha bisogno di spiegazioni. Solo di un sigaro, un drink strano… e un cielo straniero.»

Rimasero lì ancora un po’, a parlare del nulla e del tutto. Con la calma di chi non deve più dimostrare niente. Con la gratitudine sottile di chi sa che l’essenziale, nella vita, lo si può trovare a Samarcanda come dietro l'angolo di casa.

martedì 1 luglio 2025

INCUBI DISSOLTI ALLA QUESTURA




La luce filtrava già dalle finestre, illuminando la sala d’attesa della Questura di Firenze. Erano da poco passate le otto, ma l’aria sapeva già di rinuncia: sudore, scartoffie e caffè bruciato dal distributore automatico. Su una delle sedie di plastica grigia, una ragazza scrollava nervosamente il piede, le mani serrate sul cellulare. Il viso era bello, giovane, acceso da una rabbia ostinata.

«È un incubo… davvero, un incubo. Ho preso un giorno di permesso solo per questo. Il volo è tra tre giorni e quella là, quella stronza con l'aria da "perenne lunedì mattina", più simpatica di un mal di denti mi liquida con un “Il sistema è in blocco da ieri sera, non possiamo procedere con le consegne”. Ma ti rendi conto? Siamo ostaggi di una burocrazia che nemmeno funziona!»

Accanto a lei, seduto con la calma tipica di chi non ha più nulla da dimostrare, un signore elegante, sulla settantina, si sistemò gli occhiali e sorrise.

«Ti capisco, ragazza mia. Io sono qui invece per denunciare lo smarrimento della carta d’identità. La terza volta, se contiamo anche quella finita in lavatrice. Ma almeno… grazie a questa coda ho socializzato con una ragazza giovane. Evento da festeggiare, alla mia età. Già i miei nipoti mi snobbano in maniera permanente, salvo Pasqua e Natale.»

Lei lo guardò, combattuta tra il sarcasmo e un sorriso vero.

«Lei la prende sul ridere, alla sua età e con le sue certezze se lo può permettere. Beato lei.»

«No, no. Non la prendo sul ridere. La prendo da lontano. Che è diverso. Eppoi, mi permetto di darti del tu,  sai qual è l'età migliore? Come diceva Gasmann ne "Il Sorpasso" - l'età migliore è quello che uno c'ha, fin non si schiatta, si capisce.»

La ragazza tornò a fissare il cellulare, ma poi alzò di nuovo lo sguardo, come se qualcosa nelle parole del vecchio avesse trovato un appiglio.

«Io... non riesco a pensarla così,  a prenderla da lontano. È come se ogni cosa fosse sul punto di crollare, sempre. Il lavoro è precario, le relazioni pure, e adesso anche i passaporti… Tutto digitalizzato, tutto instabile, tutto fuori dal nostro controllo: è un mondo ricco e generoso solo nel distribuire illusioni  e io mi ritrovo sempre più spesso a ripetere: mi mancano le certezze, mi mancano le certezze!»

L’anziano annuì piano, poi si voltò a guardarla con uno sguardo più intenso, come se avesse aspettato quel momento per dire qualcosa che gli stava dentro da tempo.

«Sai, quando ero più giovane, vivevo con la paura che accadesse qualcosa che mi stravolgesse la vita in maniera definitiva. La perdita del lavoro, qualcuno o qualcosa che mandasse all'aria la carriera, una malattia, l’addio di una persona cara: erano incubi ricorrenti, sempre lì, sul fondo della mente. E quando qualcosa di tutto ciò è realmente successo… sì, mi ha fatto male, ma non era più un incubo: era diventato realtà e una cosa vera la si può affrontare. Si abita. Si attraversa. Quando l’incubo diventa realtà, cessa di essere un incubo e finalmente hai di nuovo la tua vita in mano, scoprendo energie che neppure sospettavi di avere.»

La ragazza lo fissò. Qualcosa si incrinò dentro di lei — non la rabbia, ma la sua inutilità.

«Dice sul serio?»

«Assolutamente. L’incubo paralizza perché è sospeso mentre la realtà, anche quando è dura, è concreta. Ti obbliga a muoverti, ti costringe a scegliere, a cambiare, e in quel momento — paradossalmente — torni libero. Non sei più prigioniera della paura che succeda qualcosa. È successo. E tu ci sei ancora.»

«È… potente, quello che ha detto.»

L’anziano fece un gesto con la mano come a dire: “Macché potente, , è solo sopravvivenza.” Poi sorrise.

«Sai cosa invece mi manca davvero, ora che tu dici che ti mancano le certezze,  le mie certezze?»

Lei lo guardò, curiosa.

«Le illusioni. Mi mancano le tue illusioni.»

Un attimo di silenzio. La ragazza rise, non forte, ma vera. Quel tipo di risata che non cambia la giornata, ma cambia come la guardi.

Dall’altoparlante gracchiante arrivò una nuova chiamata. Nessuno dei due si alzò.

Poi, con un’espressione più calma, quasi leggera, la ragazza parlò:
«Sa che le dico? Il passaporto e il Kenia possono aspettare. Prenderò il treno e andrò con la carta d'identità fino in Normandia, ora che ci penso ho sempre voluto attraversare le Alpi in carrozza, vedere i paesi cambiare fuori dal finestrino, arrivare a Mont Saint-Michel e mangiare poi ostriche a Cancal... »

L’uomo la guardò con un certo stupore divertito. «E allora cerca di non perdere la carta d'identità come me! buon viaggio! E mi raccomando, ricordati: vai tranquilla e vai serena, qualsiasi cosa accada non ne fare un dramma,  tutt’al più ti arrangerai!”




domenica 29 giugno 2025

DA CASERMA A MUSEO, LA LEZIONE (INUTILE) DI PIVKA

Pivka, Slovenia. Un tempo si chiamava St. Peter in Karst, poi San Pietro del Carso, quando questa terra apparteneva al Regno d’Italia. Siamo a venti chilometri da Postumia, in una valle tranquilla con una storia militare lunga e densa.


Nel 1933, il Regno d’Italia fa costruire una caserma per ospitare un battaglione della Guardia di Frontiera, intitolandola al Principe di Piemonte. Gli edifici, per volumi e stile architettonico, sono identici a quelli della caserma omonima di Cividale del Friuli, oggi intitolata a Mario Francescatto.

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, la struttura viene abbandonata dal Regio Esercito e subito occupata dalle truppe tedesche. Finita la guerra, diventa una base dell’Armata Popolare Jugoslava.


Nel 1991, dopo l’indipendenza della Slovenia, l’esercito federale lascia definitivamente il sito. Per qualche anno ancora, l’esercito sloveno lo utilizza per esercitazioni, poi inizia il declino e  degrado.

Ma la popolazione locale non resta a guardare. Preoccupata dal degrado di un’area così vasta, si mobilita e attiva i propri rappresentanti locali e nazionali.

Nei primi anni 2000, grazie a fondi statali e poi europei, l’ex caserma viene ristrutturata per lotti. Nasce così, con l'inaugurazione del primo lotto nel 2006, il Museo di storia militare di Pivka, il più grande della Slovenia.


Oggi ospita veicoli della Seconda guerra mondiale, mostre topografiche e fotografiche, sezioni tematiche sulla Jugoslavia federale, un sottomarino, aerei, un elicottero, un treno corazzato tedesco del 1943 e decine di mezzi blindati. Il tutto arricchito da un ristorante, un negozio e rievocazioni storiche periodiche in costume e viene data anche la possibilità di visite guidate nei sotterranei dei bunker limitrofi che facevano parte del sistema difensivo italiano "Vallo Alpino". È diventato un centro culturale e turistico di rilievo non solo regionale.

E Cividale?

La sua “gemella”caserma, anch’essa ex Principe  di Piemonte, è stata dismessa nel 2016.

Cosa ne sarà? E, soprattutto, quando sarà?

Perché non prendere esempio, anche solo in parte visto gli spazi, da Pivka? 

Un museo sulla guerra fredda e sul “dismesso” servizio di leva potrebbe interessare diverse miglia di concittadini sparsi per l’Italia e che tra quelle mura hanno passato un periodo significativo della loro gioventù. 

Amplierebbe l’offerta turistica e magari anche la permanenza dei turisti mordi e fuggi. 

Sarebbe oltremodo un riconoscimento e anche una forma di ringraziamento che si sono meritati, quando il contesto geo-politico internazionale richiedeva la massiccia presenza dell’Esercito sul confine orientale. 

Che ingenuo. Ritiro la domanda. 

Con la nostra burocrazia e i nostri infiniti “cerimoniali”, ci vorrebbero almeno cent’anni.

Meglio lasciar fare alla natura, intanto che mettiamo a punto l’idea geniale per rivitalizzare il sito.

Prima o poi, anche lei farà il suo corso. Magari trasformandola in un sito archeologico, come tanti altri: silenziosi, dimenticati, poetici. E vuoti.


venerdì 27 giugno 2025

RISTORI, DUCALE, IMPERO: IL MULTISALA DEI CHIERICHETTI

Era una di quelle serate di inizio estate in cui il cielo sembra non volersi mai spegnere e, finalmente, l'aria fresca che arriva dalle valli del Natisone attraverso la forra del fiume, portava come di consueto un po' di refrigerio a Cividale. Andrea, tredici anni appena compiuti, trotterellava al fianco del padre lungo il Ponte del Diavolo godendosi quella pausa dopo la calura della giornata, diretto verso la gelateria preferita. Il padre, quasi sessantenne, camminava piano, con quella calma tipica di chi ha imparato a gustarsi le cose.

"Papà, ma quando eri ragazzo tu, cosa facevi la domenica pomeriggio?", chiese Andrea, mentre si leccava il primo strato del suo cono al gusto di gubana.

L'uomo sorrise, quasi commosso da quella domanda, e si prese qualche secondo per rispondere. "Beh, io assieme agli amici del borgo eravamo sempre in giro. Le partite di calcio al campetto del pattinaggio, soprattutto; quello che c’era dove da poco hanno coperto la pista oppure si giocava sul prato del Convitto Nazionale Paolo Diacono, o il cortile della scuola elementare Manzoni o dove trovavamo uno spiazzo libero; la cosa che mi piaceva di più, però, era andare al cinema."

"Al cinema? A Cividale c’era un multisala?!", fece Andrea stupito.

"Tre, in realtà, ma non erano multisala", rispose il papà, ridendo. "Dai, ti porto a fare un giro. Te li faccio vedere."

Si avviarono lungo il corso. "Negli anni '70, le sale cinematografiche erano ancora un importante luogo di ritrovo. Ma i veri anni d’oro furono i '50 e i '60, con tre cinema sempre pieni. Il primo era il Cinema-Teatro Ristori, proprio qui in via Ristori. Aveva circa 600 posti, ed era comunale, gestito dalla famiglia Cumini."

Si fermarono davanti all’edificio, dal 1986 ritornato, tra diversi restauri,  solo alla sua funzione originaria di teatro, benché privo dei palchi in legno di 100 anni fa; all'inizio era quello il cinema delle 'prime visioni', e dopo un po’ arrivavano solo i film che erano già passati a Udine."

"E gli altri due?"

"Il secondo era il Cinema Ducale annesso al Ricreatorio "Sacro Cuore", in piazza Picco. Di proprietà della Parrocchia, anche quello sempre pieno. Lì ci si andava con la famiglia, i film erano quelli adatti a tutti, un luogo davvero speciale."

"L'Impero, in Corso Mazzini, invece era un po’ diverso. Aveva solo 200 posti, ed era dedicato quasi esclusivamente ai film per adulti, tranne a Natale e Pasqua. 

"Il Ristori esponeva il manifesto della pellicola in programmazione su piazza Diaz, mentre il Ducale sul lato sinistro dell'Arsenale Veneto verso Borgo San Pietro e l'Impero, esclusivamente per le proiezioni natalizie e pasquali o quelle rare "per tutti", in Largo Boiani, di fronte alla farmacia Minisini - le proiezioni "ordinarie" erano invece "pudicamente" esposte solo sulla vetrata d'ingresso in Corso Mazzini.
Riuscire a procurarsi un manifesto gigante di quelli che reclamizzavano le pellicole era un'impresa impossibile: riusci ad avere quella di "Innamorato Pazzo" con Celentano e la Muti e quella di "1997 Fuga da New York" per appenderli orgogliosamente in camera solo quando il cinema "Ristori" chiuse i battenti e tormentai fino allo sfinimento, a forza d'insistere, il proprietario." 

Andrea lo ascoltava in silenzio, colpito. "E quando hanno chiuso?"

"Il Ducale fu il primo, nel 1979. Non ce la faceva più a coprire i costi. La Curia vendette l'area assieme al Ricreatorio alla ditta Vidussi, che demolì tutto nel 1990. Al suo posto, adesso ci sono negozi, una banca e il parcheggio a pagamento; il Ristori chiuse nel 1986 per essere ristrutturato come teatro, e ogni tentativo di riaprire le proiezioni è sempre fallito. L’Impero resistette fino all’inizio degli anni ’90, ma con la chiusura delle caserme, anche lui dovette arrendersi
Oggi resta la facciata, mentre all'interno c'è la profumeria Beauty Star."

Camminavano lentamente, e il padre si fermò davanti a un punto preciso di piazza Picco. "Sai, è qui che ho visto i miei primi film. Gli Aristogatti, Fantasia, Torna a casa Lessie, ma anche 2001 Odissea nello Spazio, La fuga di Logan, Il giorno più lungo, e tutti quelli di James Bond con Sean Connery e, ovviamente, tutte le scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill."

Andrea lo guardava con occhi grandi. "Ma ti ricordi tutto?"

"Come potrei dimenticare? Avevamo i biglietti gratis se servivamo messa. Monsignor Corrado Puppa li dava a chi faceva il chierichetto alla funzione delle 10:30. Era una messa lunghissima, con molte parti in latino, ma per me e per diversi amici era un modo per guadagnarsi un pomeriggio al cinema."

Arrivati di nuovo in piazza, il papà concluse: "L’ultima volta che entrai al Ducale fu nel gennaio del 1979. Proiettarono 'Grease' con John Travolta e Olivia Newton John, e per l’occasione don Corrado fece uno stroppo alle regole: la sala era strapiena, forse c’erano tutti i ragazzi della città, pure quelli che non andavano a messa la domenica e probabilmente fu l'incasso che serviva per pagare un po' di conti in sospeso."

Si fermarono e si sedettero sulle panchine all'obra dell'area ove una volta c'era un distributore della Gulf; Andrea lo fissava, pensieroso. "È strano pensare che qui ci fosse tutto questo, che tanta gente si ritrovasse davvero per sognare insieme."

"Sì", disse il padre, fissando l'edificio dove un tempo sorgeva il cine ma Ducale. "Nessun home theater, nessun Dolby o schermo gigante potrà mai dare quelle stesse emozioni. Soprattutto quando la sala era piena e tutti respiravano lo stesso sogno."

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